IL TRIBUNALE 
 
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza,   sull'atto   d'appello
presentato nell'interesse di L. P., nato a Susa  (TO)  il  25  agosto
1979, attualmente detenuto presso la Casa  circondariale  di  Torino;
avverso l'ordinanza del 13  febbraio  2009  con  cui  il  G.I.P.  del
Tribunale di Torino  ha  respinto  l'istanza  di  sostituzione  della
misura della custodia cautelare in carcere con quella  degli  arresti
domiciliari; 
    Rilevate la ritualita' e la tempestivita' dell'impugnazione; 
    Sentita la difesa nel corso dell'udienza camerale del  18  maggio
2009, come da relativo verbale; 
 
                            O s s e r v a 
 
    L'appellante si trova ristretto in carcere dal 23 settembre 2008,
indagato dei reati di cui agli articoli 81 cpv, 600-bis c.p. (capi  A
e B), 609-bis commi 1 e 2, 61 n. 5 c.p. (capo C), 81 cpv, 527, 61  n.
2 c.p. (capo D), 56, 610, 61 n. 5 c.p. (capo E):  vittime  dei  fatti
sono due ragazze all'epoca sedicenni, contattate attraverso una  chat
line, adescate mediante la promessa di pagamento di  forti  somme  di
denaro  -  effettivamente  corrisposte  -,  indotte  a  pratiche   di
masturbazione  riprese  e  trasmesse  mediante  il  veideotelefonino,
incontrate piu' volte per ottenere rapporti sessuali, una  delle  due
violentata - e poi remunerata - al primo incontro. 
    Sia in sede di riesame che a seguito di appello avverso una prima
richiesta di sostituzione con quella  degli  arresti  domiciliari  la
misura e' stata integralmente confermata, ritenute ancora sussistenti
le esigenze cautelari ed adeguata la misura della custodia  cautelare
in carcere. 
    L'ulteriore istanza formulata dalla difesa e' stata respinta  dal
g.i.p. attraverso  il  richiamo  proprio  alla  pronuncia  di  questo
Tribunale del Riesame, di rigetto dell'appello presentato avverso  la
prima istanza. 
    All'udienza  del  27  marzo  2009  questo  Collegio  riteneva  la
rilevanza  nel  caso  di  specie  della  necessita'  di  applicazione
dell'art. 275, comma 3 c.p.p., cosi' come novellato dal decreto-legge
23 febbraio 2009, n. 11, allora in attesa di conversione, e  rinviava
per le finali determinazioni all'udienza del 18 maggio 2009. 
    Nel corso di tale udienza la difesa insisteva per il  venir  meno
di ogni esigenza cautelare e per la revoca della misura. 
    Vanno  disattese  in  primo  luogo  le  richieste  difensive  con
riguardo  al  venir  meno  delle   esigenze   cautelari,   cio'   che
comporterebbe in effetti la revoca di ogni cautela  senza  necessita'
di  valutazione  dell'ulteriore  profilo   della   misura   cautelare
adeguata: pur non volendo  considerare  la  limitazione  dell'istanza
iniziale alla richiesta  di  sostituzione  con  la  misura  detentiva
domiciliare, richiamate le valutazioni gia'  operate  nei  precedenti
provvedimenti circa la pericolosita' del prevenuto,  giova  rimarcare
che l'unico elemento sopravvenuto rispetto  all'ultima  pronuncia  e'
costituito dall'avvenuto deposito di consulenza tecnica in merito  al
contenuto del computer del L. da cui non emergono, e' vero, ulteriori
contatti  con  minorenni  finalizzati  ad  incontri  «mercenari»,  ma
risultano comunque immagini di natura pornografica. 
    Conseguentemente il Collegio non ritiene che tale  elemento,  pur
importante, possa rivestire valenza decisiva per escludere  che,  pur
tenuto   conto   dell'effetto   deterrente   connesso   alla   patita
carcerazione, in assenza di controlli e rimesso nelle  condizioni  di
poter facilmente ripristinare i canali di contatto  gia'  in  essere,
l'interessato si astenga spontaneamente dalla ripetizione di analoghe
condotte criminose rispetto a quelle per cui e' procedimento. 
    E tuttavia non possono non essere considerati quali  elementi  da
valorizzare positivamente, appunto, l'assenza  di  indicazioni  circa
l'esistenza di  altre  relazioni  con  ragazze  minorenni,  il  tempo
trascorso in carcere, ormai significativo, ed il particolare  effetto
deterrente  ad  esso  connesso  (tenuto  conto  della  incensuratezza
dell'indagato e delle regolari condizioni di  vita),  le  particolari
contingenze in cui i delitti sono maturati:  allo  stato  attuale  un
simile quadro - che si e' arricchito di  informazioni  rilevanti  che
hanno  consentito  al  Collegio  di  costruire   un   profilo   della
personalita'  che  non  era  disponibile  al  tempo  dell'arresto   -
giustificherebbe  una  prognosi   di   rispetto   sostanziale   delle
prescrizioni connesse a misure piu' gradate di quella in corso, e  di
conseguente idoneita' di esse a fronteggiare il residuo  pericolo  di
ricaduta in analoghi reati. Diversamente risulterebbe sbilanciato  il
rapporto tra le esigenze di tutela della sicurezza collettiva  ed  il
rispetto dei diritti individuali dell'indagato. 
    Il Collegio ritiene pertanto che  sussistano  le  condizioni  per
l'accoglimento dell'appello e la sostituzione della misura con quella
degli arresti domiciliari. 
    Sennonche' si pone a questo punto l'ostacolo normativo dato dalla
previsione della presunzione legislativa di  adeguatezza  della  sola
misura della custodia cautelare in carcere, introdotta dalla  recente
modifica dell'art. 275, comma 3 c.p.p. operata dall'art. 2, comma  1,
lettera a) del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11 - convertito con
legge 23 aprile 2009 n. 45 -, applicabile in caso di  sussistenza  di
gravi indizi di colpevolezza di commissione di una serie molto  ampia
di reati, tra cui quelli che qui interessano, in particolare i  reati
di induzione alla  prostituzione  minorile  e  di  violenza  sessuale
aggravata dalle condizioni di minorata difesa della vittima. 
    La norma stabilisce una presunzione - relativa -  di  sussistenza
di esigenze cautelari («salvo che siano acquisiti elementi dai  quali
risulti  che  non  sussistono  esigenze  cautelari»),   nonche'   una
presunzione  legale  assoluta  di  adeguatezza  della   sola   misura
cautelare della custodia in carcere. 
    Tale ultima disposizione - irrilevante  nel  caso  di  specie  la
prima  -  non  si  sottrae,  a  parere  del  Collegio  a   dubbi   di
costituzionalita', che impongono la sospensione del procedimento e la
rimessione degli atti alla Corte costituzionale. 
    Giova premettere,  ai  fini  della  valutazione  della  rilevanza
concreta della norma, che  il  Collegio  condivide  l'interpretazione
giurisprudenziale,   del   tutto   consolidata,   secondo   cui    la
disposizione, quale norma di carattere processuale, ed in virtu'  del
principio tempus regit actum, si applica anche alla misure  cautelari
da adottare  per  i  fatti  delittuosi  commessi  anteriormente  alla
entrata in vigore della norma stessa (da ultimo Cass. 16 giugno 2008,
n. 24433): cio' in ossequio alla distinzione tra norme sostanziali  e
norme  processuali,  e  per  il  carattere  proprio   della   materia
cautelare,   caratterizzata   dalla   strumentalita'   rispetto    al
procedimento  di  merito,  dalla  fluidita'  e  conseguente  continua
modificabilita' delle decisioni, perche'  rivolte  alla  salvaguardia
delle esigenze cautelari, in una visione sempre prognostica e  sempre
necessariamente aderente allo stato del procedimento. 
    Ritenuta la permanenza  di  esigenze  cautelari,  la  presunzione
assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare ne
impone pertanto non solo l'applicazione ma anche il mantenimento sino
agli esiti del giudizio di merito ovvero alla decorrenza dei  termini
massimi. 
    Di  qui  la   rilevanza   della   questione   di   illegittimita'
costituzionale. 
    A  parere  del  Collegio  non  e'  manifestamente  infondata   la
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  275,  comma  3,
c.p.p., per violazione degli articoli 117, primo e terzo comma  della
Costituzione. 
    Invero, principi  fondamentali  che  regolano  la  materia  della
liberta'  personale  con   specifico   riferimento   alla   fase   di
applicazione e modifica delle misure cautelari personali sono  quelli
non solo della proporzione ma anche, cio'  che  qui  piu'  interessa,
quelli dell'adeguatezza e della graduazione  della  misura,  principi
infatti espressamente enunciati nell'art. 2 della legge delega  1987,
n. 81 (n. 59, laddove, nel regolare la materia, prevede il divieto di
disporre la custodia in  carcere  se,  con  l'applicazione  di  altre
misure  di  coercizione  personale,  possono   essere   adeguatamente
soddisfatte le esigenze cautelari;  obbligo  di  disporre  la  revoca
delle misure applicate se vengono a cessare  le  esigenze  cautelari;
previsione della sostituzione  o  della  revoca  della  misura  della
custodia cautelare  in  carcere,  qualora  l'ulteriore  protrarsi  di
questa risulti non proporzionata  alla  entita'  del  fatto  ed  alla
sanzione che si  ritiene  possa  essere  irrogata),  che  richiama  i
principi della Costituzione (enunciati appunto dagli  articoli  13  e
27) e la normativa convenzionale internazionale (tra  cui  rileva  in
particolare l'art. 5, comma 1 lettera c) e comma 4, della Convenzione
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950  (infra,  CEDU),
ratificata e resa esecutiva con la  legge  4  agosto  1955,  n.  848,
unitamente al Protocollo addizionale alla Convenzione stessa  firmato
a Parigi il 20 marzo 1952. Con riguardo alle disposizioni della CEDU,
la Corte cost. ha piu'  volte  affermato  che,  in  mancanza  di  una
specifica previsione  costituzionale,  le  medesime,  rese  esecutive
nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il  rango
e quindi non si collocano a  livello  costituzionale  (tra  le  molte
sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza
n. 464 del 2005).  Ciononostante  ne  ha  anche  riconosciuto  valore
interpretativo, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle
norme censurate (sentenza n. 505  del  1995;  ordinanza  n.  305  del
2001). Dagli orientamenti della giurisprudenza della Corte  cost.  e'
dunque  possibile  desumere  un  riconoscimento  di  principio  della
peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in  considerazione
del contenuto della medesima, tradottasi nell'intento  di  garantire,
soprattutto mediante  lo  strumento  interpretativo,  la  tendenziale
coincidenza ed integrazione delle garanzie  stabilite  dalla  CEDU  e
dalla  Costituzione,  che  il  legislatore  ordinario  e'  tenuto   a
rispettare e realizzare. 
    Il parametro costituzionale contenuto nell'art. 117, primo  comma
Cost. comporta,  infatti,  l'obbligo  del  legislatore  ordinario  di
rispettare dette norme, con la conseguenza  che  la  norma  nazionale
incompatibile con la norma della CEDU  e  dunque  con  gli  «obblighi
internazionali» di cui all'art. 117,  primo  comma,  viola  per  cio'
stesso tale parametro costituzionale. Con l'art. 117, primo comma, si
e' realizzato un rinvio mobile alla norma convenzionale di  volta  in
volta conferente, la quale da' vita e  contenuto  a  quegli  obblighi
internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto
da essere comunemente qualificata «norma  interposta».  «Ne  consegue
che al giudice comune spetta interpretare la norma  interna  in  modo
conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti  nei  quali
cio' sia permesso  dai  testi  delle  norme.  Qualora  cio'  non  sia
possibile, ovvero dubiti della compatibilita' della norma interna con
la disposizione convenzionale "interposta" egli deve investire questa
Corte  della  relativa  questione  di   legittimita'   costituzionale
rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. »  (sent.  n.
349/2007). 
    In applicazione di tali fondamentali precetti, secondo il sistema
del codice di procedura penale, accertata l'esistenza di gravi indizi
di colpevolezza, valutata la sussistenza delle esigenze,  al  giudice
e' imposto l'onere di valutare e sufficientemente motivare  circa  la
scelta della misura (art. 292, c-bis c.p.p.,  secondo  cui  contenuto
essenziale, a pena di nullita', dell'ordinanza  applicativa,  e',  in
ipotesi di applicazione della massima misura della custodia cautelare
in carcere, l'esposizione delle concrete e specifiche ragioni per  le
quali le esigenze di cui all'art. 274 non possono essere  soddisfatte
con altre misure). 
    L'adeguatezza  della  cautela   va   pertanto   riguardata   come
necessita' dell'imposizione della misura via via  piu'  gravosa,  per
inadeguatezza - intesa  come  incapacita'  contenitiva  -  di  quella
immediatamente piu' lieve. 
    La norma che qui si analizza si  pone  quindi  chiaramente  quale
deroga a tali generali principi,  che  trovano  riconoscimento  negli
artt. 13 e 27 della  Costituzione,  e  che  «discendono  direttamente
dalla natura servente che la Costituzione assegna  alla  carcerazione
preventiva rispetto alle finalita' del processo, da un lato, ed  alle
esigenze  di  tutela  della  collettivita',   dall'altro,   tali   da
giustificare,  nel  bilanciamento  tra   interessi,   il   temporaneo
sacrificio della liberta'  personale  di  chi  non  e'  stato  ancora
giudicato colpevole in via definitiva» (Corte cost., sent. 22  luglio
2005, n. 299, in materia di durata massima delle misure cautelari). 
    Nella giurisprudenza  costituzionale,  a  partire  dalla  storica
sentenza n. 64/1970 e' costante l'affermazione secondo  la  quale  in
ossequio al  favor  libertatis  che  ispira  l'art.  13  Cost.,  deve
comunque essere scelta la soluzione che comporta il minore sacrificio
della  liberta'  personale  e  che  proporzionalita'  ed  adeguatezza
rappresentano corollario di tale principio. 
    Ne discende che la  loro  compressione  ove  non  trovi  adeguata
ragione  giustificatrice  nella  tutela  di  altri   interessi   pure
costituzionalmente protetti o costituisce lesione dell'art. 3  Cost.,
per irragionevolezza, quale  uso  distorto  perche'  non  efficace  e
circoscritto,    della    discrezionalita'    legislativa,    secondo
l'elaborazione giurisprudenziale della Corte cost.: «ove uno  o  piu'
valori coinvolti dalla norma appaiano sviliti al punto  da  risultare
ad esclusivo vantaggio degli altri, sara' la stessa  discrezionalita'
a non potersi  dire  correttamente  esercitata,  perche'  carente  di
alcuni dei termini sui quali la  stessa  poteva  e  doveva  fondarsi»
(sent. 12 luglio 1995, n. 313). 
    E'  pur  vero  che,  secondo  l'insegnamento  ormai   altrettanto
costante della giurisprudenza costituzionale «mentre  la  sussistenza
in concreto di una o piu' delle esigenze cautelari prefigurate  dalla
legge   (l'an   della    cautela)    comporta,    per    definizione,
l'accertamento,di volta in volta, della  loro  effettiva  ricorrenza,
non puo'  invece  ritenersi  soluzione  costituzionalmente  obbligata
quella di affidare sempre e comunque al giudice  l'apprezzamento  del
tipo di misura in concreto ritenuta come necessaria (il quomodo della
cautela), ben  potendo  tale  scelta  essere  effettuata  in  termini
generali dal legislatore (sent.  n.  64/1970;  ord.  n.  40/2002;  n.
130/2003; n. 339 e  n.  450/1995).  Tuttavia  il  limite  imposto  al
legislatore e' costantemente rappresentato dal ''rispetto del  limite
della  ragionevolezza  e  del  corretto  bilanciamento   dei   valori
costituzionali coinvolti"» . 
    E cio' che questo Collegio ritiene  leso  e'  proprio  il  canone
costituzionale della ragionevolezza, sotto i profili della disparita'
di trattamento rispetto a tutti casi di sussistenza di  gravi  indizi
di colpevolezza e di esigenze cautelari nonche' della  disparita'  di
trattamento «interna», tra le varie possibili forme di manifestazione
concreta delle condotte  rientranti  nello  stesso  titolo  di  reato
contestato; e  della  conseguente  potenziale  esuberanza  del  mezzo
rispetto al fine, cioe' che concreta eccesso di  potere  legislativo.
In  un'ottica  sistematica,  gli  interventi  del  legislatore,   pur
nell'esercizio  della  sua  discrezionalita',  devono  rispettare   i
criteri che lo stesso  individua  via  via  che  esercita  il  potere
legislativo: tali criteri costituiscono la misura della  legittimita'
del suo operato successivo secondo il parametro della ragionevolezza,
ai sensi dell'art. 3 Cost. 
    Si considerino allora le ipotesi nelle quali la  Corte  cost.  ha
ritenuto non irragionevole  l'esercizio  del  potere  legislativo  di
predeterminazione della necessita' della cautela piu'  rigorosa  sono
caratterizzate da specificita' che volta a volta hanno reso chiara  e
con  cio'  delimitata  la  ragione  di  prevalenza  sui  principi  di
graduazione ed adeguatezza  delle  misure  cautelari:  la  pregressa,
cioe' concreta, evasione dagli arresti domiciliari, che ne  impedisce
una nuova applicazione (art. 276, comma 1-ter c.p.p.,  e  284,  comma
5-bis c.p.p. valutati rispettivamente dalle pronunce n. 40/2002 e  n.
130/2003); l'essere gravemente indiziato  di  reato  aggravato  dalla
finalita' di associazioni di tipo mafioso (ord. n. 450/1995). 
    Rileva in particolare tale ultima decisione: la conclusione circa
la non irragionevolezza della scelta legislativa e' il  frutto  della
«delimitazione della  norma  all'area  dei  delitti  di  criminalita'
organizzata di tipo mafioso» ed il «coefficiente di pericolosita' per
le condizioni di base della convivenza e della  sicurezza  collettiva
che agli illeciti di quel genere e' connaturato». 
    Delimitazione delle ipotesi legislative  -  da  intendersi  anche
quale sufficiente specificazione delle condotte  rappresentate  dalle
fattispecie di reato - e coefficiente di  pericolosita'  -  immanente
nelle fattispecie mafiose - che a parere nel Collegio difettano nella
scelta legislativa. 
    Conviene formulare  alcune  osservazioni  circa  le  fondamentali
differenze tra il reato di cui all'art. 416-bis  c.p.,  per  fare  un
esempio, e quelli che qui interessano. 
    Quello di appartenenza ad  associazione  mafiosa  e'  delitto  di
pericolo e permanente, che si qualifica proprio  per  il  vincolo  di
appartenenza totalizzante  ad  un  sodalizio  caratterizzato  da  una
particolare forza  intimidatrice,  da  un  grado  di  solidarieta'  e
diffusivita' anche nel contesto  ambientale  particolarmente  elevato
(la cui pericolosita' e' legata al metodo, tanto che lo scopo sociale
che puo' anche non consistere nella  commissione  di  reati,  ma  del
quale anche nella finalita' di  inserimento  in  settori  chiave  del
contesto sociale, economico, ed anche politico, con metodi antitetici
a quelli che informano lo Stato di diritto). 
    E' la qualita' di associato  ad  una  simile  organizzazione  che
rileva, sentita dal comune sentire come particolarmente perniciosa. 
    Pienamente comprensibile  allora  e'  la  connotazione  di  reato
particolarmente grave, che, «per comune sentire, pone a rischio  beni
primari individuali e collettivi» (ord. n. 450/1995 che richiama, con
riferimento alle eccezionalita' delle esigenze di prevenzione sociale
legate ai fenomeni di infiltrazione mafiosa negli organi  di  governo
locale, le sentenze n. 407/92  e  n.  103/93),  a  prescindere  dalle
concrete espressioni dell'appartenenza alla cosca del singolo. 
    E del tutto giustificabile, anche in un'ottica  di  bilanciamento
di interessi, e' la valutazione di adeguatezza, quale  necessarieta',
della misura cautelare custodiale carceraria: la pericolosita'  della
partecipazione ad associazione di stampo mafioso  e'  legata  ad  una
sorta di condizione personale (di «mafioso») che travalica la  stessa
posizione del singolo appartenente, caratterizzata da  una  sorta  di
immanenza, dell'associazione nel tessuto ambientale  e  nella  stessa
vita del singolo, che rende costante ed immutabile l'attualita' delle
caratteristiche di pericolosita' sicche' si palesa  che  il  carcere,
quale forzato distacco indipendente dalla volonta' dell'associato, si
ponga quale mezzo indispensabile per la recisione totale dei  legami,
quindi per la conseguente neutralizzazione  della  pericolosita'  del
soggetto riconducibile, tra l'altro, alla permanenza del  vincolo  di
fedelta' dello stesso al «mandante». 
    Si spiega cosi', in una tale strutturazione della fattispecie  di
reato, anche la previsione della presunzione relativa di  sussistenza
di  esigenze  cautelari,  superabile  solo  attraverso  elementi  che
offrano la dimostrazione della avvenuta recisione del vincolo,  della
perdita in sostanza della stessa condizione personale di «associato»,
che  puo'  aversi  solo,  in  relazione  proprio  all'intensita'  del
vincolo, attraverso condotte positive che tendenzialmente si  pongono
in posizione di antagonismo e conflitto con la stessa associazione. 
    Gli stessi necessari caratteri, di omogeneita' strutturale tra le
diverse  condotte,  non  si  rinvengono  nelle  fattispecie  che  qui
rilevano:  si'  tratta  di  reati  di   evento,   a   carattere   non
necessariamente permanente, ricomprendenti nel loro  seno  una  ampia
gamma di possibili concrete  condotte,  potenzialmente  espresse  con
modalita'  estremamente  diversificate,  frutto   di   determinazioni
all'illecito di grado diverso, e di contesti ambientali  e  relazioni
interpersonali variamente connotate, in ipotesi del tutto contingenti
ed occasionali o condizionate. 
    Cosi' la condotta puo' essere  gia'  esaurita,  puo'  nascere  da
particolari rapporti, pur patologici, tra vittima ed aggressore, puo'
essere il frutto di malintese concezioni della  morale  sessuale.  Il
che non esclude la gravita'  del  reato  -  che  tale  certamente  e'
ritenuta  dalla  generalita'  dei  consociati  -  che  e'  condizione
necessaria e non sufficiente, ma vale a connotare  specificamente  la
pericolosita' del singolo autore di esso. 
    La norma di cui all'art. 275,  terzo  comma  c.p.p.,  cosi'  come
novellata, esclude  che  si  possa  tener  conto  di  tali  possibili
varianti, impedendo di trattare a fini cautelari situazioni oggettive
e soggettive diverse in maniera adeguatamente diversa, e di calibrare
la cautela,  anche  in  relazione  agli  sviluppi  del  procedimento,
cautela da intendersi anche quale possibilita' di intervento in senso
lato   rieducativo   al   fine   della   rimozione   delle   concrete
determinazioni  a   delinquere,   e   di   inibire   la   ripetizione
dell'illecito. 
    L'assenza di specificita' nella individuazione delle  fattispecie
legislative -  sempre  richiamata  in  casi  analoghi   dalla   Corte
costituzionale laddove si e' risolta per la non irragionevolezza -, e
gli elementi costitutivi di  queste,  ne  minano  la  giustificazione
nell'ottica del necessario bilanciamento  di  interessi  contrapposti
costituzionalmente  garantiti  e  del  rispetto  del   principio   di
uguaglianza,  peraltro  con  rischi  di  confusione  tra  trattamento
cautelare - improntato  al  principio  del  minimo  sacrificio  della
liberta' personale - e trattamento sanzionatorio - con  aspetti  piu'
propriamente retributivi - e di possibile attribuzione  alla  cautela
di funzione di anticipazione della pena, in contrasto con  l'art.  27
Cost. 
    Non si  discute  della  discrezionalita'  del  legislatore  nella
determinazione di inasprire la repressione di una categoria di  reati
- quali quelli che aggrediscono la  liberta'  sessuale  -,  da  tutti
avvertiti come particolarmente riprovevoli, ma della indissolubilita'
normativa tra gravita' del reato e pericolosita' dell'autore. 
    Val la pena osservare come le fattispecie  di  reato  siano  solo
evocative di casi,  in  effetti  estremamente  gravi,  meritevoli  di
particolare deplorazione sociale e causa di un  forte  sentimento  di
paura, ma che  tuttavia  non  esauriscono  la  gamma  delle  condotte
ricomprese nelle norme incriminatici. 
    Ne'  riesce  a  parere  del  Collegio  a  contenere  la   portata
dell'intervento    legislativo    la    clausola    di     esclusione
dall'applicazione della presunzione di adeguatezza della misura della
custodia cautelare in carcere delle ipotesi attenuate previste  dalle
stesse  norme  incriminatrici,  comunque  estremamente  circoscritte,
secondo l'interpretazione ormai consolidata di esse. 
    A meno di non ampliarne proprio in via interpretativa l'ambito di
applicazione, con il rischio di  confusione  tra  i  diversi  momenti
valutativi, di configurazione del reato (cio' che sino alla  condanna
definitiva si sostanzia nella verifica del  quadro  indiziario  e  si
riverbera poi sulla pena finale), e di verifica  della  pericolosita'
dell'autore (cio' che si  esprime  nella  valutazione  e  regolazione
delle esigenze cautelari, sino alla esecutivita' della  condanna),  e
di conseguente frustrazione della stessa finalita' del legislatore di
inasprimento della repressione della categoria di reati. 
    In definitiva  il  difetto  di  omogeneita'  strutturale  tra  le
innumerevoli condotte che integrano i titoli di reato per i quali  e'
prevista  la  custodia  cautelare  in  carcere  quale  unica   misura
adeguata, determina la non manifesta inamissibilita' della  questione
di  costituzionalita'  dell'art.  275,  comma  3  c.p.p.  cosi'  come
modificato dal decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito  con
legge 23 aprile 2009, n. 45 in relazione alle fattispecie di cui agli
articoli 600-bis, 609-bis c.p. integra la violazione  degli  articoli
3, 13, 27 e 117  primo  comma  della  Costituzione,  determinando  la
totale  equiparazione  del  trattamento   cautelare   di   situazioni
oggettive e soggettive potenzialmente diverse. 
    Per le considerazioni che precedono si impone la rimessione della
questione alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione  del
procedimento  ed  immediata  trasmissione  degli  atti   alla   Corte
costituzionale.