IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza, sull'atto d'appello presentato nell'interesse di L. P., nato a Susa (TO) il 25 agosto 1979, attualmente detenuto presso la Casa circondariale di Torino; avverso l'ordinanza del 13 febbraio 2009 con cui il G.I.P. del Tribunale di Torino ha respinto l'istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari; Rilevate la ritualita' e la tempestivita' dell'impugnazione; Sentita la difesa nel corso dell'udienza camerale del 18 maggio 2009, come da relativo verbale; O s s e r v a L'appellante si trova ristretto in carcere dal 23 settembre 2008, indagato dei reati di cui agli articoli 81 cpv, 600-bis c.p. (capi A e B), 609-bis commi 1 e 2, 61 n. 5 c.p. (capo C), 81 cpv, 527, 61 n. 2 c.p. (capo D), 56, 610, 61 n. 5 c.p. (capo E): vittime dei fatti sono due ragazze all'epoca sedicenni, contattate attraverso una chat line, adescate mediante la promessa di pagamento di forti somme di denaro - effettivamente corrisposte -, indotte a pratiche di masturbazione riprese e trasmesse mediante il veideotelefonino, incontrate piu' volte per ottenere rapporti sessuali, una delle due violentata - e poi remunerata - al primo incontro. Sia in sede di riesame che a seguito di appello avverso una prima richiesta di sostituzione con quella degli arresti domiciliari la misura e' stata integralmente confermata, ritenute ancora sussistenti le esigenze cautelari ed adeguata la misura della custodia cautelare in carcere. L'ulteriore istanza formulata dalla difesa e' stata respinta dal g.i.p. attraverso il richiamo proprio alla pronuncia di questo Tribunale del Riesame, di rigetto dell'appello presentato avverso la prima istanza. All'udienza del 27 marzo 2009 questo Collegio riteneva la rilevanza nel caso di specie della necessita' di applicazione dell'art. 275, comma 3 c.p.p., cosi' come novellato dal decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, allora in attesa di conversione, e rinviava per le finali determinazioni all'udienza del 18 maggio 2009. Nel corso di tale udienza la difesa insisteva per il venir meno di ogni esigenza cautelare e per la revoca della misura. Vanno disattese in primo luogo le richieste difensive con riguardo al venir meno delle esigenze cautelari, cio' che comporterebbe in effetti la revoca di ogni cautela senza necessita' di valutazione dell'ulteriore profilo della misura cautelare adeguata: pur non volendo considerare la limitazione dell'istanza iniziale alla richiesta di sostituzione con la misura detentiva domiciliare, richiamate le valutazioni gia' operate nei precedenti provvedimenti circa la pericolosita' del prevenuto, giova rimarcare che l'unico elemento sopravvenuto rispetto all'ultima pronuncia e' costituito dall'avvenuto deposito di consulenza tecnica in merito al contenuto del computer del L. da cui non emergono, e' vero, ulteriori contatti con minorenni finalizzati ad incontri «mercenari», ma risultano comunque immagini di natura pornografica. Conseguentemente il Collegio non ritiene che tale elemento, pur importante, possa rivestire valenza decisiva per escludere che, pur tenuto conto dell'effetto deterrente connesso alla patita carcerazione, in assenza di controlli e rimesso nelle condizioni di poter facilmente ripristinare i canali di contatto gia' in essere, l'interessato si astenga spontaneamente dalla ripetizione di analoghe condotte criminose rispetto a quelle per cui e' procedimento. E tuttavia non possono non essere considerati quali elementi da valorizzare positivamente, appunto, l'assenza di indicazioni circa l'esistenza di altre relazioni con ragazze minorenni, il tempo trascorso in carcere, ormai significativo, ed il particolare effetto deterrente ad esso connesso (tenuto conto della incensuratezza dell'indagato e delle regolari condizioni di vita), le particolari contingenze in cui i delitti sono maturati: allo stato attuale un simile quadro - che si e' arricchito di informazioni rilevanti che hanno consentito al Collegio di costruire un profilo della personalita' che non era disponibile al tempo dell'arresto - giustificherebbe una prognosi di rispetto sostanziale delle prescrizioni connesse a misure piu' gradate di quella in corso, e di conseguente idoneita' di esse a fronteggiare il residuo pericolo di ricaduta in analoghi reati. Diversamente risulterebbe sbilanciato il rapporto tra le esigenze di tutela della sicurezza collettiva ed il rispetto dei diritti individuali dell'indagato. Il Collegio ritiene pertanto che sussistano le condizioni per l'accoglimento dell'appello e la sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari. Sennonche' si pone a questo punto l'ostacolo normativo dato dalla previsione della presunzione legislativa di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in carcere, introdotta dalla recente modifica dell'art. 275, comma 3 c.p.p. operata dall'art. 2, comma 1, lettera a) del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11 - convertito con legge 23 aprile 2009 n. 45 -, applicabile in caso di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza di commissione di una serie molto ampia di reati, tra cui quelli che qui interessano, in particolare i reati di induzione alla prostituzione minorile e di violenza sessuale aggravata dalle condizioni di minorata difesa della vittima. La norma stabilisce una presunzione - relativa - di sussistenza di esigenze cautelari («salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari»), nonche' una presunzione legale assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere. Tale ultima disposizione - irrilevante nel caso di specie la prima - non si sottrae, a parere del Collegio a dubbi di costituzionalita', che impongono la sospensione del procedimento e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale. Giova premettere, ai fini della valutazione della rilevanza concreta della norma, che il Collegio condivide l'interpretazione giurisprudenziale, del tutto consolidata, secondo cui la disposizione, quale norma di carattere processuale, ed in virtu' del principio tempus regit actum, si applica anche alla misure cautelari da adottare per i fatti delittuosi commessi anteriormente alla entrata in vigore della norma stessa (da ultimo Cass. 16 giugno 2008, n. 24433): cio' in ossequio alla distinzione tra norme sostanziali e norme processuali, e per il carattere proprio della materia cautelare, caratterizzata dalla strumentalita' rispetto al procedimento di merito, dalla fluidita' e conseguente continua modificabilita' delle decisioni, perche' rivolte alla salvaguardia delle esigenze cautelari, in una visione sempre prognostica e sempre necessariamente aderente allo stato del procedimento. Ritenuta la permanenza di esigenze cautelari, la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare ne impone pertanto non solo l'applicazione ma anche il mantenimento sino agli esiti del giudizio di merito ovvero alla decorrenza dei termini massimi. Di qui la rilevanza della questione di illegittimita' costituzionale. A parere del Collegio non e' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, c.p.p., per violazione degli articoli 117, primo e terzo comma della Costituzione. Invero, principi fondamentali che regolano la materia della liberta' personale con specifico riferimento alla fase di applicazione e modifica delle misure cautelari personali sono quelli non solo della proporzione ma anche, cio' che qui piu' interessa, quelli dell'adeguatezza e della graduazione della misura, principi infatti espressamente enunciati nell'art. 2 della legge delega 1987, n. 81 (n. 59, laddove, nel regolare la materia, prevede il divieto di disporre la custodia in carcere se, con l'applicazione di altre misure di coercizione personale, possono essere adeguatamente soddisfatte le esigenze cautelari; obbligo di disporre la revoca delle misure applicate se vengono a cessare le esigenze cautelari; previsione della sostituzione o della revoca della misura della custodia cautelare in carcere, qualora l'ulteriore protrarsi di questa risulti non proporzionata alla entita' del fatto ed alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata), che richiama i principi della Costituzione (enunciati appunto dagli articoli 13 e 27) e la normativa convenzionale internazionale (tra cui rileva in particolare l'art. 5, comma 1 lettera c) e comma 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, CEDU), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, unitamente al Protocollo addizionale alla Convenzione stessa firmato a Parigi il 20 marzo 1952. Con riguardo alle disposizioni della CEDU, la Corte cost. ha piu' volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ciononostante ne ha anche riconosciuto valore interpretativo, in relazione sia ai parametri costituzionali che alle norme censurate (sentenza n. 505 del 1995; ordinanza n. 305 del 2001). Dagli orientamenti della giurisprudenza della Corte cost. e' dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell'intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario e' tenuto a rispettare e realizzare. Il parametro costituzionale contenuto nell'art. 117, primo comma Cost. comporta, infatti, l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli «obblighi internazionali» di cui all'art. 117, primo comma, viola per cio' stesso tale parametro costituzionale. Con l'art. 117, primo comma, si e' realizzato un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale da' vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata «norma interposta». «Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali cio' sia permesso dai testi delle norme. Qualora cio' non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilita' della norma interna con la disposizione convenzionale "interposta" egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimita' costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma, Cost. » (sent. n. 349/2007). In applicazione di tali fondamentali precetti, secondo il sistema del codice di procedura penale, accertata l'esistenza di gravi indizi di colpevolezza, valutata la sussistenza delle esigenze, al giudice e' imposto l'onere di valutare e sufficientemente motivare circa la scelta della misura (art. 292, c-bis c.p.p., secondo cui contenuto essenziale, a pena di nullita', dell'ordinanza applicativa, e', in ipotesi di applicazione della massima misura della custodia cautelare in carcere, l'esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all'art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure). L'adeguatezza della cautela va pertanto riguardata come necessita' dell'imposizione della misura via via piu' gravosa, per inadeguatezza - intesa come incapacita' contenitiva - di quella immediatamente piu' lieve. La norma che qui si analizza si pone quindi chiaramente quale deroga a tali generali principi, che trovano riconoscimento negli artt. 13 e 27 della Costituzione, e che «discendono direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto alle finalita' del processo, da un lato, ed alle esigenze di tutela della collettivita', dall'altro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi, il temporaneo sacrificio della liberta' personale di chi non e' stato ancora giudicato colpevole in via definitiva» (Corte cost., sent. 22 luglio 2005, n. 299, in materia di durata massima delle misure cautelari). Nella giurisprudenza costituzionale, a partire dalla storica sentenza n. 64/1970 e' costante l'affermazione secondo la quale in ossequio al favor libertatis che ispira l'art. 13 Cost., deve comunque essere scelta la soluzione che comporta il minore sacrificio della liberta' personale e che proporzionalita' ed adeguatezza rappresentano corollario di tale principio. Ne discende che la loro compressione ove non trovi adeguata ragione giustificatrice nella tutela di altri interessi pure costituzionalmente protetti o costituisce lesione dell'art. 3 Cost., per irragionevolezza, quale uso distorto perche' non efficace e circoscritto, della discrezionalita' legislativa, secondo l'elaborazione giurisprudenziale della Corte cost.: «ove uno o piu' valori coinvolti dalla norma appaiano sviliti al punto da risultare ad esclusivo vantaggio degli altri, sara' la stessa discrezionalita' a non potersi dire correttamente esercitata, perche' carente di alcuni dei termini sui quali la stessa poteva e doveva fondarsi» (sent. 12 luglio 1995, n. 313). E' pur vero che, secondo l'insegnamento ormai altrettanto costante della giurisprudenza costituzionale «mentre la sussistenza in concreto di una o piu' delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l'an della cautela) comporta, per definizione, l'accertamento,di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza, non puo' invece ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice l'apprezzamento del tipo di misura in concreto ritenuta come necessaria (il quomodo della cautela), ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali dal legislatore (sent. n. 64/1970; ord. n. 40/2002; n. 130/2003; n. 339 e n. 450/1995). Tuttavia il limite imposto al legislatore e' costantemente rappresentato dal ''rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti"» . E cio' che questo Collegio ritiene leso e' proprio il canone costituzionale della ragionevolezza, sotto i profili della disparita' di trattamento rispetto a tutti casi di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari nonche' della disparita' di trattamento «interna», tra le varie possibili forme di manifestazione concreta delle condotte rientranti nello stesso titolo di reato contestato; e della conseguente potenziale esuberanza del mezzo rispetto al fine, cioe' che concreta eccesso di potere legislativo. In un'ottica sistematica, gli interventi del legislatore, pur nell'esercizio della sua discrezionalita', devono rispettare i criteri che lo stesso individua via via che esercita il potere legislativo: tali criteri costituiscono la misura della legittimita' del suo operato successivo secondo il parametro della ragionevolezza, ai sensi dell'art. 3 Cost. Si considerino allora le ipotesi nelle quali la Corte cost. ha ritenuto non irragionevole l'esercizio del potere legislativo di predeterminazione della necessita' della cautela piu' rigorosa sono caratterizzate da specificita' che volta a volta hanno reso chiara e con cio' delimitata la ragione di prevalenza sui principi di graduazione ed adeguatezza delle misure cautelari: la pregressa, cioe' concreta, evasione dagli arresti domiciliari, che ne impedisce una nuova applicazione (art. 276, comma 1-ter c.p.p., e 284, comma 5-bis c.p.p. valutati rispettivamente dalle pronunce n. 40/2002 e n. 130/2003); l'essere gravemente indiziato di reato aggravato dalla finalita' di associazioni di tipo mafioso (ord. n. 450/1995). Rileva in particolare tale ultima decisione: la conclusione circa la non irragionevolezza della scelta legislativa e' il frutto della «delimitazione della norma all'area dei delitti di criminalita' organizzata di tipo mafioso» ed il «coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere e' connaturato». Delimitazione delle ipotesi legislative - da intendersi anche quale sufficiente specificazione delle condotte rappresentate dalle fattispecie di reato - e coefficiente di pericolosita' - immanente nelle fattispecie mafiose - che a parere nel Collegio difettano nella scelta legislativa. Conviene formulare alcune osservazioni circa le fondamentali differenze tra il reato di cui all'art. 416-bis c.p., per fare un esempio, e quelli che qui interessano. Quello di appartenenza ad associazione mafiosa e' delitto di pericolo e permanente, che si qualifica proprio per il vincolo di appartenenza totalizzante ad un sodalizio caratterizzato da una particolare forza intimidatrice, da un grado di solidarieta' e diffusivita' anche nel contesto ambientale particolarmente elevato (la cui pericolosita' e' legata al metodo, tanto che lo scopo sociale che puo' anche non consistere nella commissione di reati, ma del quale anche nella finalita' di inserimento in settori chiave del contesto sociale, economico, ed anche politico, con metodi antitetici a quelli che informano lo Stato di diritto). E' la qualita' di associato ad una simile organizzazione che rileva, sentita dal comune sentire come particolarmente perniciosa. Pienamente comprensibile allora e' la connotazione di reato particolarmente grave, che, «per comune sentire, pone a rischio beni primari individuali e collettivi» (ord. n. 450/1995 che richiama, con riferimento alle eccezionalita' delle esigenze di prevenzione sociale legate ai fenomeni di infiltrazione mafiosa negli organi di governo locale, le sentenze n. 407/92 e n. 103/93), a prescindere dalle concrete espressioni dell'appartenenza alla cosca del singolo. E del tutto giustificabile, anche in un'ottica di bilanciamento di interessi, e' la valutazione di adeguatezza, quale necessarieta', della misura cautelare custodiale carceraria: la pericolosita' della partecipazione ad associazione di stampo mafioso e' legata ad una sorta di condizione personale (di «mafioso») che travalica la stessa posizione del singolo appartenente, caratterizzata da una sorta di immanenza, dell'associazione nel tessuto ambientale e nella stessa vita del singolo, che rende costante ed immutabile l'attualita' delle caratteristiche di pericolosita' sicche' si palesa che il carcere, quale forzato distacco indipendente dalla volonta' dell'associato, si ponga quale mezzo indispensabile per la recisione totale dei legami, quindi per la conseguente neutralizzazione della pericolosita' del soggetto riconducibile, tra l'altro, alla permanenza del vincolo di fedelta' dello stesso al «mandante». Si spiega cosi', in una tale strutturazione della fattispecie di reato, anche la previsione della presunzione relativa di sussistenza di esigenze cautelari, superabile solo attraverso elementi che offrano la dimostrazione della avvenuta recisione del vincolo, della perdita in sostanza della stessa condizione personale di «associato», che puo' aversi solo, in relazione proprio all'intensita' del vincolo, attraverso condotte positive che tendenzialmente si pongono in posizione di antagonismo e conflitto con la stessa associazione. Gli stessi necessari caratteri, di omogeneita' strutturale tra le diverse condotte, non si rinvengono nelle fattispecie che qui rilevano: si' tratta di reati di evento, a carattere non necessariamente permanente, ricomprendenti nel loro seno una ampia gamma di possibili concrete condotte, potenzialmente espresse con modalita' estremamente diversificate, frutto di determinazioni all'illecito di grado diverso, e di contesti ambientali e relazioni interpersonali variamente connotate, in ipotesi del tutto contingenti ed occasionali o condizionate. Cosi' la condotta puo' essere gia' esaurita, puo' nascere da particolari rapporti, pur patologici, tra vittima ed aggressore, puo' essere il frutto di malintese concezioni della morale sessuale. Il che non esclude la gravita' del reato - che tale certamente e' ritenuta dalla generalita' dei consociati - che e' condizione necessaria e non sufficiente, ma vale a connotare specificamente la pericolosita' del singolo autore di esso. La norma di cui all'art. 275, terzo comma c.p.p., cosi' come novellata, esclude che si possa tener conto di tali possibili varianti, impedendo di trattare a fini cautelari situazioni oggettive e soggettive diverse in maniera adeguatamente diversa, e di calibrare la cautela, anche in relazione agli sviluppi del procedimento, cautela da intendersi anche quale possibilita' di intervento in senso lato rieducativo al fine della rimozione delle concrete determinazioni a delinquere, e di inibire la ripetizione dell'illecito. L'assenza di specificita' nella individuazione delle fattispecie legislative - sempre richiamata in casi analoghi dalla Corte costituzionale laddove si e' risolta per la non irragionevolezza -, e gli elementi costitutivi di queste, ne minano la giustificazione nell'ottica del necessario bilanciamento di interessi contrapposti costituzionalmente garantiti e del rispetto del principio di uguaglianza, peraltro con rischi di confusione tra trattamento cautelare - improntato al principio del minimo sacrificio della liberta' personale - e trattamento sanzionatorio - con aspetti piu' propriamente retributivi - e di possibile attribuzione alla cautela di funzione di anticipazione della pena, in contrasto con l'art. 27 Cost. Non si discute della discrezionalita' del legislatore nella determinazione di inasprire la repressione di una categoria di reati - quali quelli che aggrediscono la liberta' sessuale -, da tutti avvertiti come particolarmente riprovevoli, ma della indissolubilita' normativa tra gravita' del reato e pericolosita' dell'autore. Val la pena osservare come le fattispecie di reato siano solo evocative di casi, in effetti estremamente gravi, meritevoli di particolare deplorazione sociale e causa di un forte sentimento di paura, ma che tuttavia non esauriscono la gamma delle condotte ricomprese nelle norme incriminatici. Ne' riesce a parere del Collegio a contenere la portata dell'intervento legislativo la clausola di esclusione dall'applicazione della presunzione di adeguatezza della misura della custodia cautelare in carcere delle ipotesi attenuate previste dalle stesse norme incriminatrici, comunque estremamente circoscritte, secondo l'interpretazione ormai consolidata di esse. A meno di non ampliarne proprio in via interpretativa l'ambito di applicazione, con il rischio di confusione tra i diversi momenti valutativi, di configurazione del reato (cio' che sino alla condanna definitiva si sostanzia nella verifica del quadro indiziario e si riverbera poi sulla pena finale), e di verifica della pericolosita' dell'autore (cio' che si esprime nella valutazione e regolazione delle esigenze cautelari, sino alla esecutivita' della condanna), e di conseguente frustrazione della stessa finalita' del legislatore di inasprimento della repressione della categoria di reati. In definitiva il difetto di omogeneita' strutturale tra le innumerevoli condotte che integrano i titoli di reato per i quali e' prevista la custodia cautelare in carcere quale unica misura adeguata, determina la non manifesta inamissibilita' della questione di costituzionalita' dell'art. 275, comma 3 c.p.p. cosi' come modificato dal decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con legge 23 aprile 2009, n. 45 in relazione alle fattispecie di cui agli articoli 600-bis, 609-bis c.p. integra la violazione degli articoli 3, 13, 27 e 117 primo comma della Costituzione, determinando la totale equiparazione del trattamento cautelare di situazioni oggettive e soggettive potenzialmente diverse. Per le considerazioni che precedono si impone la rimessione della questione alla Corte costituzionale, con conseguente sospensione del procedimento ed immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.